domenica, marzo 19, 2006

Storie: Fantasia e...


Fantasia ed immaginazione sono utili o no?

Una domanda che ha attraversato la nostra cultura e cui sono state date risposte molteplici e contrastanti, coinvolgendo filosofi, artisti e sapienti in genere.

Oggi anche la scienza, che si basa sulla sperimentazione e sulla definizione, perciò sull’uso di quella parte del cervello, nei destrimani l’emisfero sinistro, in cui risiedono le funzioni logico-verbali, quindi razionali, mostra qualche perplessità. Vedi, ad esempio la psiconeurologia e il bel libro di Antonio Damasio, L’errore di Cartesio, che rivaluta l’importanza, anzi la necessità dell’uso di quelle parti del cervello deputate alla rielaborazione delle emozioni e dei sentimenti. Emozioni e sentimenti che l’essere umano riesce meglio ad esprimere sia con il corpo sia con quella che Watzlawick chiama la lingua dell’immagine, della metafora, della pars pro toto, forse del simbolo, in ogni caso della totalità e non della scomposizione analitica.

Anch’io, inserendomi in questo dibattito sul valore o meno di un’opera di fantasia quale Il Signore degli Anelli, che a mio parere è un libro serio ed interessante, preferisco usare il linguaggio della metafora proponendovi una mia breve e modesta fiaba. La composi molti anni fa ispirandomi a mio figlio, a mia figlia ed alle sue amichette, che mi avevano fatto riflettere non solo sul valore della fantasia ma anche su altre tematiche connesse comunque al bisogno ed al diritto di immaginare, alla possibilità di intuire e di andare molto più in là di tante dotte e realistiche dissertazioni


FALPALELLA

C’era una volta una bambina di nome Luigina ma che tutti chiamavano Falpalella.
Questo perché a lei piacevano tanto i volants, alti bassi, smerlati o no, pieghettati o arricciati, non importa; sui suoi vestitini lei voleva sempre dei falpali e così sul bordo delle mutandine, dei calzini e dei grembiulini per andare a scuola.
Pantaloncini non ne voleva proprio; voleva solo gonne con i falpali; e anche camicette con le maniche sbuffanti e con tanti volants attaccati, così che la sua mamma, poveretta, diventava matta a stirarli ed era costretta a farsi aiutare dal babbo.
Avevano cercato di convincerla ad indossare i jeans, come tutti gli altri bambini, o perlomeno abitini lisci, magliette e felpe. Niente da fare. S’intristiva, le venivano i lucciconi, tirava su col naso e non parlava più. Lei che era una bambina buona, dolce, studiosa e sempre sorridente. E allora i genitori si rassegnarono: mica si può avere la perfezione!
E a chi le domandava perché volesse sempre i volants, magari uno solo per i vestitini di tutti i giorni, lei rispondeva: “Mi mettono allegria” e poi piroettava su un piede solo e saltellava canterellando.
A scuola certi bambini la prendevano in giro: “Ma come ti vesti?! Non usa mica più! Sembri mia nonna!”. Oppure certe smorfiosette mormoravano: “Vedi lei! Chissà chi si crede d’essere. La principessa Tumistufi!” e, quando lei si avvicinava per giocare, si allontanavano tutte impettite col naso all’aria.
Lo strano è che Falpalella mica stava ferma come una bambolina. Anzi! Giocava ad acchiaparello, a nascondino, andava sull’altalena e si arrampicava persino sugli alberi. Come facesse a non scorticarsi tutta era un mistero. Qualche graffietto se lo faceva anche lei ma come tutti gli altri.
Un giorno di primavera la maestra annunciò ai suoi scolari che li avrebbe portati in gita fra i boschi sulle colline: “Mi raccomando, portatevi lo zaino con la merenda e vestitevi in maniera adeguata, belli comodi!” e guardava con la coda dell’occhio Falpalella, tanto che i bambini se ne accorsero e si misero a ridacchiare.
Falpalella era al settimo cielo: andare fra i boschi, fare le capriole sui prati, giocare a palla…. E sognava, sognava tutte le meraviglie di quella gita, tanto che volle mettersi il suo vestito preferito, a fiorellini gialli e verdi, falpali al colletto, alle maniche e tanti, uno sopra l’altro, sulla gonnellina arricciata.
Mamma e babbo neanche ci provarono a farle cambiare idea, anzi mamma le aveva attaccato un paio di volants anche allo zainetto giallo su cui era dipinta una bella margherita bianca: “Mi raccomando, Falpalella, attenta ai sassi, alle ortiche, alle vipere; con le gambe nude è più facile farsi male”. Falpalella ascoltava e accennava di sì mentre piroettava su un piede solo, facendo allargare la gonnellina che sembrava un fiore.
Molti bambini, quando la videro, cominciarono a ridere: “Uh, Uh, guarda come si è conciata, e per arrampicarsi fra i boschi poi!”. Qualche bambina provò un pochino di rabbia perché Falpalella era molto graziosa. La maestra non disse nulla ma sbuffò e pensò: “Bisognerà tenerla d’occhio!”?
La giornata era piena di sole e i bambini correvano, saltavano, ogni tanto litigavano e si davano qualche botta: insomma, erano contenti. Ben presto molti si dimenticarono di come era vestita Falpalella e giocarono con lei che era sempre allegra e sorridente. Passarono le ore: mangiarono su un prato, giocarono a palla, inseguirono i raggi di sole che filtravano tra le foglie dei rami del bosco.
E giunse il momento del ritorno; erano stanchissimi: a chi pesava lo zaino, a chi dolevano i piedi, chi mugolava perché aveva sete e aveva bevuto tutto quello che s’era portato. E così tornavano indietro camminando tutti ciondoloni e la maestra doveva continuamente fermarsi e dire: “Su… forza…coraggio… fra poco arriveremo”. Ma la strada diveniva sempre più lunga.
Si alzò un po’ di vento. Meno male, almeno stavano più freschi!
Ma piagnucolavano lo stesso. “Ma come – osservava la maestra – voi che siete così sportivi!”
Fu allora che tutti, maestra compresa, si accorsero di un fatto assai strano: Falpalella, tutta allegra e sorridente, mica camminava, volava! Sì, volava; a tratti, ma volava. Si alzava sulle punte dei piedini, aspettava che il vento le gonfiasse la gonna, spiccava un balzo e via… quattro, cinque, sei metri veleggiando come un palloncino, meglio, come uno di quei semini leggeri, che sembrano paracadute e si staccano dagli alberi per andare a posarsi chissà dove; riscendeva leggera, si rialzava sulla punta dei piedi, aspettava che il vento le rigonfiasse la gonna e via di nuovo.
E quando arrivarono, tutti stanchi morti con la testa ciondoloni, Falpalella era fresca e sorridente, che neanche sembrava che fosse andata in gita.


Mariamartina


Immagine tratta da “Fantasia” - © MCMXL The Walt Disney Company

giovedì, marzo 02, 2006

Sulla Saggistica Tolkieniana


"Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire"
(Italo Calvino)

Una delle sezioni storiche di Eldalië, quella che forse ci contraddistingue maggiormente nel panorama web tolkieniano, quella che più amiamo e per la quale veniamo tacciati di un poco di pazzia (non tantissimi son disposti a mettere in rete così tanti materiali!) è la sezione dei Saggi. In essa accumuliamo materiali frutto delle letture e dei ragionamenti attorno all'opera e alla figura del Professore.
Egli stesso, però, si espresse in termini piuttosto critici... sulla critica, per l'appunto. Quindi, teoricamente, fare saggistica tolkieniana significa da un lato rendere un servigio a chi magari non ha letto o compreso determinati aspetti della sua produzione letteraria: dall'altro, però, si cammina pericolosamente sul filo del rasoio con cui il Professore stesso tranciava i suoi giudizi su un certo modo di intrufolare letture critiche nei suoi scritti.
Dunque, che senso può avere fare saggistica tolkieniana, anche a livello amatoriale?
Lo abbiamo chiesto a Nilfalathiel, una delle nostre commentatrici più valenti (vedere i suoi lavori per credere), ed ecco la sua risposta:
«Un libro ha la capacità di toccare le corde della sensibilità di ognuno; corde diverse, che producono suoni diversi. Quando lo si legge, il libro diventa come un diamante colpito da un raggio di sole: la luce brilla e si rifrange in mille direzioni. Leggere vuol dire cercare di seguire almeno una di quelle direzioni, entrare nel mondo che l'autore ha creato con le parole, per amarlo, o dimenticarlo. Leggere vuol dire mettere da parte per un po' le cose che ci circondano, staccare la spina, per ritrovare se stessi in un'altra dimensione.
Ma cosa vuol dire commentare un autore e la sua opera?
Vuol dire prima di tutto amare quell'autore, volerne comprendere a fondo la magia. Commentare serve a capire, e a far capire.
Per troppo tempo l'opera di Tolkien è stata sottovalutata, o peggio ancora, bistrattata o distorta faziosamente. Eppure questo schivo Professore di Oxford ha creato una mitologia, ha risvegliato l'epica in un'età che sembrava averla dimenticata. L'opera di questo insigne filologo costituisce l'eredità che la grande letteratura del passato ci ha lasciato.
La Terra di Mezzo affonda le sue radici nel nostro mondo, le sue storie sono l'eco di storie senza tempo: commentare Tolkien vuol dire dare voce a quelle storie perché non siano dimenticate».

Gianluca Comastri - (c) Eldalië, 2004